A Marco Pantani
I nostri lettori rimarranno forse un po’ sorpresi di leggere queste righe su un sito dedicato alla cinofilia. Ma il motivo c’è. Prima di tutto, Marco Pantani era uno dei nostri, un cacciatore. Veniva talvolta dalle nostre parti, dove aveva anche una casa, e spesso andava a caccia con un altro grande corridore, nostro conterraneo, Massimiliano Lelli. 
Ma oltre a questo, e ancor più di questo, ci sono altri motivi. Noi amiamo lo sport, tutti gli sport, il calcio, in particolare, e molti altri, ma più di tutti, sommamente, questi tre: la caccia con il cane da ferma, l’ ippica e il ciclismo. C’è un nesso che li lega. In ciascuna di queste tre discipline, indipendentemente dal fatto che ne siano protagonisti il cane, il cavallo e l’uomo, noi ricerchiamo perennemente l’espressione della forza trascinatrice del Campione, si chiami esso Or del Cecina, Ribot o Fausto Coppi. La sublime figura del Campione ci commuove, ci affascina, ci consola. Il trialer che vola, come diceva Giulio Colombo, su la piana di Bolgheri, il purosangue che sulla dirittura di Capannelle o di San Siro fa esplodere il boato della folla, l’uomo solo al comando della corsa sulle immense montagne parlano al nostro cuore un linguaggio inimitabile, lo avvolgono dell’aura dolce del sogno, lo fanno palpitare d’eroici furori. È una forma di religiosa devozione: nei capolavori della natura ricerchiamo e riconosciamo i segni della infinità maestà e magnificenza di Dio. Non conosciamo alcun’altra forma di agonismo sportivo che, al pari di queste, sia capace di mettere a prova l’essere vivente proteso nel massimo sforzo, di farlo soffrire e di mostrare colui nel quale il Padreterno si è compiaciuto di dare testimonianza di ciò che può fare. 
Farlo soffrire, abbiamo detto. Intendevamo immane sforzo fisico e morale, la potenza e il coraggio, la carne e lo spirito, il corpo e l’anima, il desiderio inesausto di vincere, la brama di osare l’estremo. Insomma la sofferenza in senso buono, fisiologico, agonistico, quella dipinta sul volto degli atleti fotografati nel momento del loro massimo impegno. Ma non intendevamo affatto un’altra sofferenza, la sofferenza cattiva, che è invece malattia, pianto, dolore, angoscia. Marco Pantani, purtroppo, le ha conosciute entrambe. 
Ne parlavo, con struggente nostalgia, proprio poco tempo fa. Ricordo, come fosse ieri, erano i primi di Giugno del 1994, son giusto dieci anni, ormai. Vivemmo una delle più belle giornate di sport di tutta la nostra vita. La televisione, una domenica, trasmise in diretta tutta l’intera tappa del Giro d’ Italia che, attraverso lo Stelvio ancora innevato e il Mortirolo, conduceva al traguardo dell’ Aprica. Quella corsa, snodatasi con ritmo epico, solenne, attraverso una sequenza di eventi che catturarono la nostra estasiata ammirazione, vide, alla fine, la vittoria trionfante, guadagnata con lo stile inimitabile del fuoriclasse, di un giovane corridore romagnolo, che da poco s’era affacciato alla ribalta del grande ciclismo. Quel ragazzo poco più che ventenne si chiamava Marco Pantani. Seppe battere, quel giorno, in modo chiaro e indiscutibile, su, per quella stradina, probabilmente la più bella salita d’Europa, un campione come il grande, grandissimo Miguel Indurain. Pose la sua firma su una delle pagine più stupende della storia del ciclismo di fine secolo.
Eran trascorsi quattro anni. Dopo aver subito gravi colpi, di quelli che possono spengere definitivamente la forza anche del più grande campione, Pantani affrontava l’ultimo gravoso impegno di un Giro d’Italia che lo aveva visto splendido dominatore. Eravamo invitati ad una lieta ricorrenza, un pranzo tra cinofili per festeggiare belle vittorie e grandi cani. Tuttavia, affrontammo il lungo viaggio anche con un po’ di rammarico: temevamo che quella piacevole riunione, pur così gradita, ci facesse perdere la telecronaca della tappa a cronometro, dove Marco, dopo aver vinto su le montagne, in maniera indimenticabile, la battaglia con un altro valoroso corridore, Alex Zulle, si accingeva all’ultima sfida, quella col fortissimo Pavel Tonkov, decisiva per la definitiva assegnazione della maglia rosa. L’allegra brigata era ancora tutta a tavola: a un certo punto ci guardammo negli occhi. Uno di noi si alzò per primo, per andare nella saletta accanto, dove c’era un televisore acceso, e da cui ci giungevano gli echi della corsa. Tornò subito, dicendo: “Ragazzi, sta per partire Pantani!”. Decidemmo subito, all’unanimità, che non ce lo potevamo perdere, e deliberammo una pausa per assistere alla gara. Fu una gran giornata. Pantani vinse il Giro, e, il mese dopo, vinse anche il Tour. Impresa titanica, che lo collocava nel novero ristrettissimo dei più grandi corridori di tutti i tempi. 
Il terzo atto della vicenda si svolge l’anno successivo. Pantani sta per bissare la vittoria nel Giro d’Italia, dove ha fornito, anche stavolta, strepitose prestazioni. Ma un mattino dei primi di Giugno, a Madonna di Campiglio, accade quello che tutti sanno. 
Noi non sappiamo, e probabilmente non sapremo mai, come siano andate realmente le cose. Sta di fatto che di lì per Marco Pantani cominciò il calvario. Una cosa tuttavia è certa: pochi campioni, nella storia dello sport, hanno dovuto subire tutto quello che ha dovuto subire lui. C’è stato, contro di lui, lo scatenarsi di una persecuzione lunga e tenace, inesorabile e implacabile, che ne ha minato a poco a poco la resistenza, la capacità di reagire, e, in ultimo, la voglia di vivere. 
Forse ha sbagliato. Ma chi è senza peccato scagli la prima pietra, disse Gesù Cristo. E disse anche: non giudicate, per non essere giudicati.
Che l’odiosa ipocrisia, l’invidia e la superbia, e il cuore incallito dei nuovi, o eterni, farisei possa trasformare un moralistico sdegno, già di per sé vile e ignobile, in turpe odio da riversare spietatamente su un uomo, fino a scavare intorno a lui un vallo, così profondo da non essere più valicabile, d’isolamento, solitudine, disperazione, è il vero, ennesimo scandalo di una vita, di un mondo, in cui la malvagità pretende sempre di farla da padrona. 
Grazie, Marco. Ti abbiamo amato, per tutto quello che hai saputo fare, per tutta la gioia che hai saputo donarci. Riposa, finalmente.

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