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La scomparsa di Oscar Monaco

 
 



Conobbi la prima volta Oscar Monaco a Sutri, di mezza estate. Io ero un fanciullo, avevo compiuto diciott’anni, e preso da poco la patente. Lui era un ragazzo, aveva trentaquattr’anni. Varie volte, in seguito, a "Oscarino” piaceva ricordare, conversando con altri, quel nostro primo incontro. Che avvenne, per l’esattezza, nel piazzale del motel Settevene, dov’era il raduno per la gara, e si era appena conclusa la riunione del consiglio del Pointer Club. Noi eravamo lì fuori, io, ovvio, in trepidante attesa, decisamente emozionato. I consiglieri uscirono alla spicciolata: c’era Coppaloni, Zavattero, il Conte Saladini Pilastri, c’era Silvano Sorichetti, la Signora Romani. Ma questi già li conoscevo. Poi uscì Monaco, il personaggio per me più atteso. Ne avevo sentito molto parlare, ero curioso circa l’impressione che mi avrebbe fatto a vederlo di persona. A quell’epoca portava ancora i baffi, era un bel giovane, magro, di media altezza, molto chic, molto signorile, raffinato, elegante. Sul viso abbronzato, incorniciato dai capelli già brizzolati, spiccavano i bellissimi occhi color verde chiaro. Alla fine osai avvicinarmi, e presentarmi. Mi rispose con inaspettata cordialità, sorridente, gentilissimo. Sorprendentemente, mi dette del voi, secondo il bell’uso aristocratico ancora vivo a Napoli. Mi disse che gli aveva parlato di me l’Avvocato Giovanni Radice, ed era assai lieto di fare la mia conoscenza. Il tutto come se fossi il più navigato degli habitué, invece che un bimbetto ad una delle sue prime uscite dalle mura domestiche. Rapidamente, dopo la breve presentazione, quella minuscola folla si mise in agitazione, era ormai imminente l’inizio della gara. Prima che riprendessimo la Cassia per spostarci a Sutri, dovevano essere comunicati i turni. Erano iscritti venti cani. Furono formate le coppie, dopo di che venne annunciato che le prime cinque avrebbero corso oggi, e le altre cinque l’indomani. Oscar mi disse di stare attento a Bruno Zordan e alla sua Signora Natalina. Edo dell’Azor, che per il momento se ne stava tutto disteso a dormire sul sedile posteriore della macchina, correva alla sesta coppia. Appena lo seppero, i Signori Zordan salutarono tutti, con un cordiale arrivederci al dì seguente. "Dove vanno?”, chiesi. "A Mombarone”, fu la risposta. Ma il giorno dopo erano ancora lì, puntualissimi. Distanza Mombarone d’Asti - Sutri oltre seicento chilometri. Cose del bel tempo che fu!

Quante volte, poi, con Oscar ci divertivamo a ricordare simili aneddoti! Come quello di Zavattero, che, avendo in mano una specie di piccozza, la conficcava in terra e si rivolgeva a gli spettatori intimando che non oltrepassassero quel limite invalicabile. Ai timidi mugugni di protesta, aggiungeva poi: "E va bene, fate tre passi avanti”.

La gara fu bellissima. Io ero al settimo cielo, annichilito, estasiato. Ammiravo ad occhi spalancati, a bocca aperta, le evoluzioni di quei celebri trialer che avevano popolato i miei più accesi sogni di adolescente. Prima che attaccassero i turni era stato offerto un rinfresco alla villa di caccia, e le ostilità erano iniziate non prima delle sei del pomeriggio, ma faceva lo stesso un gran caldo. Ad onta di ciò, i cani sfrecciavano pancia a terra a velocità incredibile. Tutto intorno, la pace di quel paesaggio maestoso, dai colori ineffabili, illuminato dai bagliori rossastri del sol calante d’agosto, soavemente accarezzato dalla placida brezza profumata che risaliva dal Tirreno a molcere con soffio delicato quelle dolci colline. I coniugi Mario e Franca Romani si prodigavano a rifornirci di acqua e bibite fresche, mentre ce ne stavamo muti a divorare con gli occhi i famosi campioni di Gino Botto, Mario Marchesi, Franco Grassi. Ricordo ancora nitidamente che la cosa che mi colpì di più era il clima, l’atmosfera, lo stile, il decoro, l’eleganza. La cinofilia, quella cinofilia, era dunque come me l’ero immaginata, come l’avevo sognata! Ammesso che avessi avuto ancora bisogno di qualcosa per subire definitivamente il contagio, era fatta!

Dopo quella gara, in effetti, la mia accesa fantasia non posava giammai dal ruotare intorno a quel fulcro che aveva suscitato in me tanto entusiasmo. E narravo, narravo, ai miei genitori, che stavano pazienti ad ascoltare, e ai miei amici cinofili, un po’ meno pazienti, della mia avventura in quei due pomeriggi passati sul solenne altopiano tufaceo della Tuscia. Al giorno d’oggi, per godere emozioni nemmeno paragonabili a quelle, bisogna emigrare in ben altri paesaggi, assai meno familiari ed accoglienti, lontani le mille miglia dall’amato suolo natio. Eppure, Arno 2° di Val d’Idice, Edo dell’Azor, Gip 14°, Clastidium Islo non avevano nulla, ma proprio nulla, da invidiare ai moderni trialer, anzi semmai è vero il contrario.

Il mio rapporto con Oscar ha sempre oscillato tra due poli: da un lato era fraterno, tra due amici quasi coetanei, dall’altro, all’opposto, guardavo a lui come a una sorta di autorità paterna benevola e comprensiva, prodiga di consigli e insegnamenti. E mi beavo, ogni volta che mi era possibile, dei suoi racconti, tutti piccoli fatti quotidiani delle vicende cinofile. Come per esempio, a proposito di Gip appena citato, quando volevo che mi narrasse per l’ennesima volta le imprese venatorie del grande campione, o come quando non mi stancavo di farmi raccontare di altri favolosi trialer del passato.

Da quel primo giorno, il nostro legame si è sempre mantenuto saldo per tutto il tempo. Da parte mia ogni volta che mi fosse possibile, non perdevo mai l’occasione di invitarlo a giudicare in Maremma, gare ed esposizioni, e lui accettava sempre di buon grado.

Come giudice, era formidabile. Apparteneva alla cerchia che ha svolto un ruolo determinante nel far sorgere, nutrire, accrescere, consolidare la mia devastante passione. Lui, Alberto Chelini, Giovanni Radice, Enrico Oddo, Silvano Sorichetti, Ernesto Coppaloni, Romano Saladini Pilastri, Carlo Annibale Maggi, Tommaso Corsini, Franco De Angelis, Luigi Delaini, Antonio Santarelli, Giuseppe Meucci. Di Beppe, e di suo fratello Appio, quante volte ho obbligato Oscar a ripetermi la storia di Valiant Furfant, quando i due fratelli "del Cecina” fecero la monta con Barnabè, di Luis Zavattero! Oppure a raccontarmi di quella volta che, in epoca insospettabile, i vertici dell’ENCI furono convocati al ministero, e della disarmante spontaneità, semplicità, sincerità, onestà del Principe Tommaso Corsini (allora nostro illustre e beneamato Presidente). Anni luce dalla doppiezza, dalla lingua biforcuta, dalla miserabile ipocrisia e falsità dei cafoni di ieri, di oggi, di sempre

A Grosseto, Oscar conosceva molti cinofili, e in primo luogo il carissimo Dottor Beppe Arzilla, amico di famiglia, che tanta parte ha avuto, anch’egli, nell’infondermi l’amore per la cinofilia.

Una volta, c’incontrammo con Oscar ad una esposizione. La prima cosa che mi disse, quasi ancor prima che ci scambiassimo il buongiorno, fu che Radice gli aveva riferito di una mia telefonata con cui gli chiedevo consigli per una monta!

Dicevo: nel giudicare i cani, sia in expo che in gara, era infallibile. Rientra nel ristrettissimo, ma qualificatissimo!, novero dei giudici dai quali meno vanto e onore di aver imparato tutto quello che posso esser stato capace di imparare. Oltre ad Oscar, Radice, Chelini, Gistri, Sorichetti, Ammannati e alcuni altri che ho già ricordato in altre occasioni.

Oscar Monaco era una persona amena, piacevole, divertente, di uno spirito talvolta irresistibile. La sua presenza a una gara già di per sé era più che sufficiente a farmi partire da casa impaziente di arrivare. Come tutte le persone di vaglia, sapeva mirabilmente coniugare lo spirito di eterno ragazzo, scanzonato, goliardico, irriverente, a l’ aplomb del signore, del gentiluomo, serio, compassato, inappuntabile.

Come allevatore, è stato un grande. Aveva il sesto senso magico dell’allevamento, oltre a una notevole cultura e passione e predisposizione in questa difficile arte. Allevava per sé, una cucciolata ogni tanto, con l’intento disinteressato dello sportivo puro. Era un fine conoscitore, un tecnico, del cavallo da corsa, amava il galoppo, e anche il trotto. E sicuramente trasponeva le sue profonde nozioni ippiche nell’allevamento del trialer. Quintessenza del pointerista, aveva allevato con grandissimi risultati anche dei magnifici setter. Il più famoso è il grande Saintclair, un altro eccelso trialer, in epoca assai più recente, è stato Pegaso del Volturno.

Aveva delle note psicologiche alla Tesio. Grande intuito, grande personalità, grande finezza e sicurezza di scelte. E anche un po’ di quella che, in modo molto ordinario, viene chiamata superstizione. Io preferirei definirla, come lui, e come Tesio, il sottile piacere e la cauta riverenza nei confronti di fenomeni che possono andar oltre le nostre possibilità conoscitive, non sono al momento né dimostrati né dimostrabili, ma non per questo vanno considerati, con stolta e superficiale presunzione, certamente vani. Una volta, era in macchina con me, in Spagna. A un tratto, si verifica... un "attraversamento”. Senza dir nulla, accosto, e mi fermo. Lui non batté ciglio, e non proferì verbo. Proseguiamo a conversare, fintanto che il problema si può ritenere ragionevolmente risolto, grazie al fluire del traffico, nei due sensi di marcia. Alfine, senza fretta, mi decido a ripartire. Dopo un po', si volge verso di me, con espressione seria e compresa, e mi dice: "Paolino, grazie”. Era abbastanza fatalista, e intransigente. Mi narrava di aver affrontato lunghi, faticosi viaggi per presentare una sua fattrice a uno stallone in cui riponeva forte stima, e poi, arrivato sul posto, ricredersi e fare dietrofront, una volta constatato che tra i due promessi sposi non si era creata la debita atmosfera di reciproco coinvolgimento. Era convinto che, in simili casi, insistere con forzature non avrebbe potuto produrre nulla di buono.

In ambito pointer, tra i suoi allievi mi piace ricordare Edmond del Volturno, fratello della famosa e fenomenale Eglantine, e poi il magnifico Ramon del Volturno, che aveva anche un eccelso fratello, Rif. Probabilmente, il suo capolavoro è stato Fiano del Volturno.

Fiano lo presentò Michele Iazzetta al Derby del 2004. Ero in giuria, e fui subito conquistato dal fascino di quell’atleta, che mostrava a chiare lettere di essere fatto della pasta del vero fuoriclasse. Fui convinto assertore della necessità di richiamarlo, e quando ci spostammo sulle ardue colline del Monferrato, appunto per i richiami, rivedemmo all’opera Fiano, a lungo, con ferma convinzione, e strenua speranza che potesse incontrare. Purtroppo, non riuscimmo a trovare le starne, e alla fine ci dovemmo arrendere. Ma l’impressione destata da Fiano fu clamorosa e solenne. Se sui piani della Tollara ci aveva fatto vedere di essere un bellissimo e possente galoppatore, ricco di mezzi, di qualità, di temperamento, portato in terreni completamenti diversi rivelò la sua intima natura di trialer, la sua personalità e la sua determinazione di starnista indomito e inesauribile. Conclusa la sua avvincente performance, rammento che dovemmo risalire un duro pendio per riguadagnare la strada, dove trovai il dottor Grassi e il dottor Guberti entrambi entusiasti di quello splendido puledro, cui pronosticarono con certezza un fulgido avvenire. Appena arrivati al luogo del raduno, come scesi di macchina vidi Oscar, e mi diressi immediatamente verso di lui, anticipandogli che avevo da dirgli una cosa. E lui mi rispose: "So già che mi dirai una cosa carinissima”.

Trascorrere le giornate con Oscarino era un continuo piacere. Arguto, sornione, irresistibilmente divertente, elegante. Un giorno, a una gara di caccia primaverile in una delle magnifiche riserve dei Principi Corsini, si soffermò a raccogliere dei fiori di campo per farne omaggio a una signora. Mi diceva: "Caro Paolino, ti piace vestirti bene, e poi certe volte ti presenti con la barba lunga”. Un mattino, eravamo al Villa Ducal di Osuna, scesi nella hall dell’albergo rasato alla perfezione. Mi presentai da Oscar chiedendogli: "Va bene così?” e lui mi rispose: "Ah finalmente perfetto, a zizze ‘e pacchiana”.

Mi piaceva e mi divertiva anche quando mi prendeva in giro. Una volta, durante un’animata discussione, a un certo punto, un po’ spazientito, se ne uscì dicendomi che ero uno che, come si dice a Napoli, "chiagne e fotte”.
Una volta, durante una conversazione con altre persone, a un certo punto mi disse all'orecchio: "Lo so che sei un meridionalista”. Intendeva riferirsi alla mia simpatia e affinità per il Sud.

A febbraio del ’98, in vista della trasferta in Spagna per la Coppa Europa, avevo stabilito che, qualora avessimo vinto, mi sarei presentato a cena in cravatta nera, e dunque, ad ogni buon conto, misi in valigia anche lo smoking. Per l’appunto, le cose andarono nel migliore dei modi, e vincemmo. E io mantenni fede al mio proposito. Mentre qualcuno, senza peraltro che me ne importasse nulla, ebbe da ridire su questa mia scelta, Oscar mi disse: "Bravo Paolino, bello elegante per festeggiare la vittoria”. Durante tutto quel periodo in effetti Oscar mi fu sempre molto vicino, amico e sodale, si mostrò molto soddisfatto del mio lavoro e fu prodigo di complimenti e felicitazioni. Lui che, in fatto di saper fare il selezionatore, era maestro indiscusso.

Sempre in quel periodo, poco dopo la Coppa, vinsi anche il Derby, con un cane del mio allevamento. Alla lettura della classifica, me ne stavo accovacciato in un canto. Applausi, congratulazioni, festeggiamenti, mentre l’allevatore, immobile e da solo, non riusciva a trattenere lacrime sommesse. Con la vista un po’ appannata mi volsi intorno, e trovai lo sguardo di Oscar, l’unico, che mi stava osservando, sorridente, in silenzio. Non potrò mai dimenticare la dolcezza, la delicatezza di quello sguardo, e di quel sorriso, è un ricordo struggente che rimarrà indelebilmente impresso nel mio cuore.

A volte, sebbene raramente, non dico che abbiamo anche litigato, ma ci siamo trovati a diverbio, in aperto contrasto. E Oscar mi ha anche ripreso e rampognato con fermezza. Aveva quasi sempre ragione, ma, indipendentemente da questo, non sono mai stato capace, mai, di avermene a male. Appena finita, dopo pochi minuti era già tutto passato, anzi, riaffiorava in me l’irresistibile forma di riconoscenza e accettazione, che inevitabilmente conseguiva a quel mio modo di vederlo, come ho detto, nelle vesti di un fratello maggiore o di un buon padre di famiglia, sollecito anche nel rimprovero, quando necessario.

Una sera, eravamo a tavola insieme. Dopo un’infinità di chiacchiere, all’improvviso se ne uscì così: "Tu sei nato borghese, ma non doveva essere così: tu saresti dovuto essere aristocratico”. Un’altra volta, eravamo in Spagna. Mi stavo annoiando fortemente, durante le interminabili attese che in quelle contrade precedono sempre l’inizio della gara. Stavo gironzolando come al solito attorno alla Venta Andres del Pedroso, quando eccoti che si avvicina Oscarino e mi prende sottobraccio. Siccome pareva che avesse da dirmi qualcosa d’importante, ci portiamo un po’ in disparte, per poter parlare più tranquillamente. Bisogna fare una premessa. Oscar era intelligente, astuto, era un uomo di mondo. Ma anche a lui capitava di sbagliarsi. Era da un po’ che aveva preso una cantonata, e quel che è peggio si intestardiva a perseverare, nonostante che a più riprese gli avessi espresso il mio scetticismo. Su certe cose, io non sono mai stato troppo cocciuto, e se qualcuno, come in quel caso Oscar, si ostina ad insistere, alla fine, anche perché in ultima analisi si tratta sempre di cose che mi interessano molto relativamente, non dico che mi lascio convincere, ma insomma, per quieto vivere, la do per buona. In quel periodo era stato preso, chissà perché, lui sempre prudente, scettico, e anche talvolta caustico, da un infondato ottimismo, che sperava fosse trasfuso anche in me. Siccome mi vide cedevole e possibilista, allora sì che si entusiasmò! Mi disse: "Tu mi devi fare un favore. Devi scrivere una bella cosa, come sai far tu, e poi ci penso io a farla pubblicare nella sede adatta e con tutto il risalto. Guarda, se mi fai questo favore, vedrai che ti ricompenserò con una cosa che a te farà molto, molto piacere”. Io commisi il grave errore di non chiedere subito in che cosa consistesse esattamente la ricompensa. Nel preciso istante che me lo diceva, mi feci l’idea - non si sa su quali basi fosse fondata - che Oscarino mi stesse promettendo di farmi avere una qualche onorificenza da mettere su carta intestata e biglietti da visita. Questa prospettiva, in effetti, esercitava su di me una potentissima, quasi irresistibile attrazione, e mi accesi di immediato insolito fervore. Trascorso, al massimo, un giorno, ci fu immancabilmente chi, venuto a conoscenza dei nostri programmi, evidentemente per indiscrezioni sfuggite allo stesso Oscarino, che in questo caso si comportò da ingenuo, intervenne a spegnere sul nascere tutti i nostri sogni di gloria. Meno male! E poi, se non altro, un risultato positivo ci fu comunque: che Oscarino dovette convincersi, e ammettere, di aver fatto, e sostenuto, valutazioni del tutto errate. La successiva evoluzione dei fatti ne dette la più ampia conferma.

Oscarino, nei non frequenti momenti in cui talvolta si lasciava andare a scoprirsi un po’ l’animo, mi ha palesato il suo chiaro, profondo, acerbo rimpianto di non aver avuto figli. In certi casi, ho avuto l’evidente certezza che ne soffrisse terribilmente. E mi ha parlato anche del grande amore della sua vita, per una donna bellissima, purtroppo prematuramente scomparsa, verso la quale ha sempre continuato a nutrire stima, devozione, dolcezza, immutato affetto.

E un’altra cosa di cui soffriva era certamente la solitudine. Cosa che si accetta a cuor leggero da giovani, anzi, con baldanza e spesso con la rincuorante celata soddisfazione, e il sottile piacere, della libertà. Ma poi, col passare degli anni, la faccenda cambia aspetto. Non è che me lo dicesse apertamente, ma insomma non sono mancate le occasioni in cui questo suo intimo disagio è emerso in modo inequivocabile. E si è acuito da quando, circa una decina di anni fa, perse la madre, in età molto avanzata.

Lui è stato a casa mia, io invece non sono mai stato da lui. Sembra quasi impossibile, in tanti e tanti anni di amicizia, ma è così. Sia chiaro, non certo per colpa sua, tutt’altro. Ché mi ha sempre, continuamente, insistentemente, instancabilmente invitato ad andarlo a trovare. Io, per la mia pigrizia, la mia riservatezza, la mia "asocialità”, ho sempre stabilito fermamente che prima o poi avrei tenuto fede alle mie reiterate promesse, poi sempre immancabilmente rinviate. Tanto che ormai questo era diventato un tormentone, che ci divertivamo entrambi a tirar fuori a periodica frequenza, ridendone allegramente. Gli dicevo: "Oscar, sai che sono capitato a Napoli?”, già sapendo l’immancabile risposta: "Certo, ovviamente non senza prima esserti assicurato che io fossi da qualche altra parte!”. In alcune occasioni, quando eravamo entrambi ispirati, ci mettevamo lì a fare progetti, e lui stendeva tutto il programma dettagliato della mia visita a Napoli: ti porto di qua, ti porto di là, ce ne andiamo a mangiare nel tal posto, e così via. Peccato.

Una volta che pareva finalmente giunto il momento di andare, poi, invece, all'improvviso, non fu più necessario. Il fatto si riferisce ad uno degli episodi più belli, e più dolci da ricordare, della mia vita. Nel mese di gennaio del '93, Bora di San Rabano venne in calore, e fui seriamente tentato di farla nuovamente coprire, dopo la gravidanza di due anni prima con Mack del Tirso. E' ovvio che ai primi giorni del flusso mestruale si parla di "tentazione”, la quale, in breve, rivela poi immancabilmente la sua vera natura di decisione irrevocabile e ineludibile. C'era da scegliere lo stallone. Ma non stetti a pensarci nemmeno un minuto, e scelsi Axel del Vento. Per la qual cosa, telefonai ad Oscar. Per chi non lo sapesse, lui era stato nel 1988 CT dell'Italia per la Coppa Europa, che si svolse in Francia, e vide il più perfetto trionfo della nostra squadra nazionale. Fatto unico nella storia, tutti e quattro i cani italiani andarono in classifica, e la gara fu vinta, con CACIT, da Axel del Vento, il formidabile figlio di Asso ed Esperia del Vento (la più meravigliosa genealogia che possa immaginarsi), condotto da Giorgio Baldoni. Quell'anno Axel, da campionissimo, vinse sia il Campionato europeo pointer che la Coppa Europa! E il proprietario, Francesco Di Stadio, decise di ritirarlo, ancora giovane, nel momento del suo massimo fulgore, e di regalarlo al suo grande amico Oscar Monaco. Bisognerebbe che fosse sempre così: quando un cane ha già completato tutti i titoli di Campione, e ha vinto tutto quello che c'è da vincere, perché continuare a farlo gareggiare? Che senso ha? Meglio, molto meglio inviarlo in razza nel pieno del vigore. Nel caso di Axel e Oscar, si stabilì un'unione meravigliosa. I due, si può dire entrambi fortunati, formavano una coppia ideale, legata da reciproco amore viscerale. Non so quante volte Oscarino mi ha confidato un suo continuo cruccio di quegli anni bellissimi di sodalizio tra lui e quel meraviglioso pointer. "Peccato, - mi diceva- peccato che la vita dei cani sia così breve...”. Per dirne una, mi riferì un giorno Attilio Pasquali di essere andato a Portici, nella regale magione di Oscarino, a far coprire una sua fattrice. Per il coniugio, si pensò che fosse adattissimo lo splendido giardino (in realtà un magnifico parco di oltre un ettaro!). Ma le cose andavano per le lunghe, sembrava che Axel fosse preda di una sorta di ansia, non fosse perfettamente a suo agio. Al che Oscar disse ad Attilio: "Dammi retta, è meglio che li portiamo in camera, vedrai che lì, nel suo letto, per Axel sarà diverso”. Così fu fatto, e il matrimonio andò subito a buon fine! Riguardo al giardino, esso, con i cani, costituiva la passione, l'amore e la principale occupazione di Oscar. Il quale spesso mi confidava: "Ma come si fa, quando uno ha pensato ai cani e al giardino, è già finita la giornata”. Vero, verissimo. Non di rado, quando ci trovavamo all'estero insieme, lo vedevo indaffaratissimo a procurarsi delle essenze che gli mancavano, e, una volta ottenutele, la sua massima preoccupazione era di portarsele sane e salve a casa, dove provvedeva immediatamente a trapiantarle con ogni cura. Del resto, era un botanico provetto, e aveva in materia una conoscenza davvero prodigiosa, che gli ho sempre grandemente invidiato. E' capitato spesso che, mentre eravamo insieme in campagna, lo vedessi intento a fotografare alberi ed arbusti. Una volta, le solite anime buone, che non mancano mai, animate dall'abituale perfidia, dalla consueta malvagità, trovarono il modo di mandargli le guardie a casa per un controllo. Costoro, in breve, lamentarono che i cinque cani di Oscar, che stavano a casa con lui, adempissero a le loro quotidiane necessità fisiologiche nel giardino. Oscar li guardò sorpreso, e rispose. "Certo, è naturale, non solo loro, anche io!”. Le guardie se ne andarono subito, e grazie a Dio non sono più tornate.

Riprendendo il discorso interrotto, inutile dire che Oscarino, appena saputa la mia intenzione, ne fu lietissimo. Trascorsi alcuni giorni, mi telefonò per dirmi che era stato invitato ad una partita di caccia con l'inseparabile Axel in Toscana, e quindi, se volevo, potevo approfittare dell'occasione, risparmiandomi il lungo viaggio. L'indomani, io e mio figlio Guido, in serata, partivamo alla volta del cuore del Chianti, accompagnati dalla nostra adorata Borina. Fummo invitati a una splendida cena, e Oscar ci chiese quando fosse meglio procedere alla bisogna, se prima di mangiare, o dopo. Non avevamo alcun dubbio, prima, prima! La nostra meravigliosa compagna fu presentata senza ulteriori indugi al promesso sposo, ed entrambi manifestarono subito un vivo reciproco gradimento. Durante le more conseguenti all'amoroso amplesso, si avvicinò un amico di Oscar, noto cinofilo, il quale chiese come fosse quella femmina. Oscar s'incaricò di rispondere immediatamente, con un luminoso sorriso: "È bravissima!”. Queste sono le piccole, ma grandi, cose che determinano perché uno sia più, o meno, legato a una persona.

Tra l'altro, ricordo con infinita dolcezza e rimpianto i nostri fortuiti, e ripetuti, incontri in Polonia, per la caccia, io con Guido e Bora, e lui con Axel. Che bellissime sorprese, che piacere, che gioia. Una volta, tornati in Italia, e incontratici a distanza di qualche tempo, Oscarino mi confidò che una di quelle sere, imbattendosi improvvisamente e inaspettatamente con me e Guido, mentre, al termine di una faticosa ma gioiosa giornata, stavamo portando Bora e i suoi figli a passeggio, nei dintorni dell'albergo, si commosse. Questo fatto è da porre in relazione con quanto detto più sopra.

Dei figli di Bora ed Axel, che ebbero una fantastica riuscita, uno era destinato, come diritto di monta, ad Oscarino. Passa il tempo, e noi ci affezioniamo sempre più a questo cucciolo, che era bellissimo e simpaticissimo. Alla fine, pur riluttante, dovetti farmi coraggio, e telefonare a Oscar. Mi rispose immediatamente di non preoccuparmi: se il cucciolo piaceva tanto ai miei figli, glielo cedeva di cuore.

Il cuore, la generosità di Oscarino sono universalmente note, e non c'è alcun bisogno di stare a parlarne.

Sempre, in ogni momento, in ogni occasione, in ogni circostanza in cui sono stato con lui, senza alcunissima eccezione, si è sempre comportato con una signorilità inimitabile e inarrivabile. Un uomo decisamente superiore.

Inutile dire che quando, molto vecchio, morì Axel, per Oscar fu una mazzata. Me ne dette la notizia con la voce e lo sguardo velati di profonda malinconia.

Ogni volta che Oscar ha fatto il selezionatore, o di Coppa o di Campionato, è stato sempre un successo. Dopo il clamoroso trionfo del 1988, fu CT di nuovo nel ’96. L’Italia non riuscì ad aggiudicarsi di nuovo la Coppa, ma la squadra si comportò bene, e ci fu la grande vittoria individuale della stupenda Iala del Celo. Un’altra strepitosa affermazione fu quella del Campionato Europeo Pointer del 2000, a Corbeilles-en-Gatinais. Due figli di Iala, Milord e Milady di Groppo, stravinsero il titolo maschile e femminile. Il grande Milord sarà poi il padre di Fiano. Ricordo che andammo a festeggiare in un magnifico ristorante e fu una serata piacevolissima, con Oscarino in forma smagliante. E anche quando selezionò di nuovo la squadra di Coppa, nell’edizione del 2005 a Salonicco, le cose andarono eccezionalmente bene, con tre cani italiani in classifica e la vittoria sfuggita per un’inezia.

Già che siamo in tema di grandi eventi cinofili europei, mi torna in mente il campionato del 2003, quando io ero il selezionatore. Fu un’edizione scialba, irrimediabilmente compromessa dalle pessime condizioni ambientali in cui si svolse la gara. Condizioni che fu subito chiaro non avrebbero mai consentito ai nostri cani di poter realizzare nulla di buono, nonostante che facessero tutto, e di più, con un impegno strenuo e meraviglioso. Avevo messo in squadra, tra gli altri, il grande campione Ramon del Volturno. A un certo punto, quando volgeva al termine la prima giornata, mentre io ed Oscar eravamo in macchina insieme, si avvicina Michele Iazzetta. Io ero alquanto taciturno, mentre Oscar disse a Michele: "Stai tranquillo, sono sicuro che domani sarà una gran giornata, lo sento”. Michele sorrise, annuì e gli si illuminò il viso. Quando fummo di nuovo soli, dissi a Oscar: "Non riesco proprio a capire da dove venga fuori tutto questo ottimismo”. E lui: "Nemmeno io, ma non hai visto com’era mogio?”.

Oscar era in giuria al Derby di Marengo del 2006. Il terzo giorno, la domenica, dedicato ai richiami, si levò un impetuoso vento di maestrale, talmente forte da indurre i giudici dell’altra batteria a rintanarsi in macchina e rinunciare ad ogni velleità. Ma non così fece la terna di cui faceva parte Oscar. Andarono avanti ad ogni costo. Io da bordo campo guardavo quel settantenne camminare e correre per ore in mezzo alla burrasca, ed ero pieno di ammirazione.

Ripensando questi eventi, mi scorrono davanti a gli occhi tutti i bei momenti, l’infinità di meravigliose giornate trascorse alle gare, in Italia e all’estero, in Francia, Spagna, Belgio, Polonia, Croazia, Serbia...Quanti bei ricordi, quante emozioni condivise, che belle cose vissute assieme.

Il 2006 fu una grande, memorabile annata. Con il Derby vinto da un eccezionale campione, quell’ Aiax nelle cui vene scorreva abbondante il sangue "del Volturno”. Fummo con Oscarino, oltre che al Derby, in Spagna, e in Serbia, poi alle classiche, quindi, in autunno, in Polonia. Ma a gli albori dell’anno seguente nessuno di noi poteva immaginare quello che sarebbe successo. Era già primavera inoltrata quando Oscar partì per la Grecia insieme con i coniugi Iazzetta. E accadde purtroppo quello che non doveva accadere, e che tutti ahimè sanno. Quella tragedia lasciò un segno profondo, una ferita insanabile. Rividi Oscar ai primi di giugno: era una larva, sconvolto, colpito in modo durissimo. Tra l’altro, era il giorno dell’assemblea del Pointer Club, lo stesso giorno in cui, fatalità, venne a mancare Silvano Sorichetti, un altro degli ultimi grandi della vecchia guardia. Ci volle tanto tempo perché Oscar si riprendesse, ma mai completamente.

L’anno scorso io speravo, desideravo, volevo che facesse il Presidente del Pointer Club. Per uno come lui, era il minimo dovuto, assolutamente il minimo indispensabile. Per uno che era stato per quasi mezzo secolo la bandiera della cinofilia italiana, in tutta l’Europa. Ma parlandoci, anche più volte al giorno, a mano a mano mi rendevo conto che ormai non era più il tempo. Neanche mi disse che non si sarebbe neppure ripresentato alle elezioni per il rinnovo del consiglio. Facemmo il viaggio insieme, per, e da, Modena. E lo scoprii, della sua mancata candidatura, solo al ritorno, lui era in macchina con il Dottor Marsullo, e mi telefonò per dirmi com’era andata a finire. Ci fermammo a mangiare qualcosa, e quando ci salutammo, mi disse: "Vieni a Napoli”.

Ci ritrovammo alle classiche. A Campo Felice la speciale pointer fu l’ultima gara che abbiamo giudicato insieme. In Polonia, a ottobre, stavolta non c’era. All’inizio di quest’anno, mi scrisse Mario Di Pinto, e mi dette un pugno in faccia, dicendomi ciò che purtroppo stava accadendo. Mi disse di chiamarlo. Io scoppiai a piangere, spensi il computer. Nella mia vita professionale di medico in ospedale, il dramma insormontabile, per me, è sempre stato quello di mentire col prossimo gravemente ammalato. Tuttavia dovevo sforzarmi, e ci riuscivo, molto spesso anche benissimo. Ma con Oscar no. Con lui no, non sarei mai stato capace di inventarmi frottole. Non solo non avevo il coraggio, ma sentivo che non avrei mai potuto affrontare la realtà, parlare con lui come ai bei tempi felici. Sì, sono stato un vigliacco. Non ho più avuto il coraggio nemmeno di alzare il telefono e chiamarlo. Forse questo comportamento sarà giudicato molto severamente. Ma chi mi conosce bene forse capirà. Quel pomeriggio del primo di giugno ho ricevuto due telefonate, una dietro l’altra, da Giancarlo Trivellato e da Mauro Iazzetta. Non sono riuscito che a farfugliare qualche mezza parola.
 

 

 











 







 



La mia vecchia caccia

Non molti giorni fa ho ricordato nella mia rubrica "Il libro della sera” il bellissimo "Giornate di caccia” del Senatore Eugenio Niccolini, marchese di Camugliano e Ponsacco. Un'opera mirabile, donde traspira un'aura poetica inimitabile. A ciò contribuisce il fatto, di grande rilievo per me, che la maggior parte dei racconti del Niccolini sono ambientati all' Alberese, la principale culla del mio grandioso innamoramento per la caccia. Ma non solo per la caccia in assoluto, ma anche e soprattutto per quell'ambiente, per quei luoghi di inarrivabile bellezza, e insostenibile fascino, che cantavano al mio cuore di fanciullo l'amoroso carme per la mia terra, le dolci canzoni del tetto natìo.

L'Alberese, quello del Marchese Niccolini, e quello della mia fanciullezza, che, nonostante il circa mezzo secolo trascorso, gli somigliava ancora tanto, sono alla base dei miei ricordi di caccia, corposo volume che, nel cassetto, aspetta di essere pubblicato. Ma sicuramente prima o poi lo sarà. Secondo il Niccolini la Maremma si affacciava al balco d'oriente del ventesimo secolo, esistendo però solo in effigie. Il corpo, nella sua esteriore parvenza, era ancora presente, apparentemente intatto, o quasi, ma ciò che era per sempre perduto era l'anima.

La caccia che ho conosciuto da bambino era quella ancora regolata dall' eccellente T.U. del 1939. Della commissione parlamentare incaricata di redigerlo faceva parte, per espressa volontà del Duce, il Marchese Niccolini. La caccia in Italia era posta sotto l'intelligente attenta rigorosa signorile sorveglianza di uno scienziato come S.E. il Prof. Alessandro Ghigi, Magnifico Rettore dell'Università degli studi di Bologna, Deputato e Senatore, fondatore, nel 1933, e direttore dell' Istituto di Zoologia applicata alla caccia.

Per me, che mi avventuravo, guidato con passione ed entusiasmo da un genitore a sua volta cacciatore e discendente di cacciatori, alla scoperta di un mondo meraviglioso, quello dell' Ars Venandi, la caccia si identificava innanzitutto con la grandissima tradizione maremmana e più in generale toscana. Dove sorgevano i Monti dell' Uccellina e l' Alberese, cantati da Gabriele D'Annunzio nelle Laudi, dove ancora si estendeva maestoso e meraviglioso il padule (detto alla maremmana!) e le grandi foreste selvagge regno del cinghiale. Non solo, ma dove si incontravano a caccia, col marchese Niccolini, i maggiori esponenti dell'antica nobiltà toscana, e intellettuali, artisti e letterati come per esempio lo stesso D'Annunzio, Giosuè Carducci, Giacomo Puccini, Renato Fucini, Eugenio Cecconi, Mario Puccioni.

Nella Maremma si estendevano le immense tenute di grandi famiglie, i Della Gherardesca, gli Antinori, gli Incisa della Rocchetta, i Corsini, il nobile senatore Giovan Battista Collacchioni, che dal suo castello di Capalbio dominava tutta la parte meridionale della nostra terra, fino al lago di Burano ed al mare. E le loro riserve di caccia erano la salvezza della selvaggina, e il bene di tutti i cacciatori maremmani, ed anche dei cinofili, ovviamente.

Se non ci fossero state le guerre, se non ci fosse stata la tragica sventura della seconda guerra mondiale, se l'Italia non fosse conseguentemente diventata l'unica Nazione comunista ad ovest della cortina di ferro, e se, in particolare, non fossero state previste nella Costituzione, e poi, dopo un quarto di secolo, purtroppo pessimamente attuate le famigerate regioni, rovina irreparabile della nostra povera Patria, non dico che la situazione sarebbe potuta rimanere simile a quella per sempre immortalata da Eugenio Niccolini, ma quasi.

Ma ci pensate alla caccia in Maremma passata da quei personaggi, da quella cultura, da quella tradizione, da quei numi tutelari, da quelle leggi e ancor più da chi era stato incaricato di farle e di applicarle, allo sfacelo, allo smisurato squallore odierno, all'analfabetismo truffaldino, alla volgarità e all'ignoranza elevate a sistema !!!

Quella era la vera arcaica demagogia leninista cui erano ancora legati i comunisti. Oggi anche loro sono cambiati. Cambiati sì, ma non certo in meglio. L'ignoranza, la prepotenza, la presunzione sono rimaste le stesse.



Gastronomia e cinofilia

Come molti sapranno, la nuova edizione della "Prova del cuoco” non è più condotta da Antonella Clerici, che è stata sostituita da Elisa Isoardi. La sostituzione della signora Clerici non è stata certamente, almeno per me, un gran dolore, anzi, al contrario. Mi "consolo” pensando che è andata a cercarsi la sua Waterloo a "Portobello”. Io, avessi un centesimo della immane montagna di soldi che ha lei, non andrei magari a Sant'Elena, ma certamente in luoghi ameni dove non ci sono pensieri, c'è un bel clima e ci si può immergere nel mare e nel dolce far nulla, godendosi la vita oziosa: "... nunc veterum libris nunc somno et inertibus horis ducere sollicitae iucunda oblivia vitae ...”. E il problema Clerici sarebbe definitivamente risolto. Ma quest'altro, il problema Isoardi? Io mi chiedo, e vi chiedo: come è possibile presentarsi ogni santo giorno vestita da pijama party, con le babbucce, i calzoni del pigiama, a strisce, a metà stinco, alla "sompafossi”, e la camiciola? Non si sa muovere, non sa parlare, fa spesso confusione, si vede lontano un miglio che se la Clerici notoriamente non sapeva cuocere un uovo lei ancora meno. Ha una voce e un modo di parlare che sono l'antitesi della telegenia. Insomma, un pesce fuor d'acqua. Anche il taglio della trasmissione (ma su questo non so se la conduttrice abbia un ruolo) è fortemente decaduto, non suscita più alcuna curiosità ed alcun interesse. Io dubito che, come si dice in gergo calcistico, arrivi a mangiare il panettone, ma credo proprio di no, a meno che la Rai sia totalmente a corto d'idee e di alternative (il che è non probabile, bensì sicuro). Ma nelle cose brutte, specie se di poca o nulla rilevanza, si può talvolta sforzarsi con successo di trovare qualcosa di positivo. Mi pare di ricordare che la giuria cambia, ahimè, ogni settimana. In ogni caso questa settimana ne faceva parte Igles Corelli, il Principe, il Maestro di color che sanno, della gastronomia e della ristorazione italiana. Persona affabile, cortese, di innata simpatia, basta la sua presenza per risollevare le sorti di un programma nato sotto pessimo auspicio. È un artista, una delle più eminenti figure del panorama culinario nazionale. Non voglio fare paragoni, ma il suo stile e la sua dottrina sono superiori, talvolta di anni luce, anche in confronto ad altri suoi colleghi altrettanto famosi e celebrati. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo, e di intrattenermi a colloquio con lui, ahimè tanti, ma tanti anni fa.

Dai tempi del mitico Trigabolo di Argenta, ma poi soprattutto della Tamerice, a Ostellato, nelle valli del Mezzano. Quanti dolcissimi ricordi, dolcissimi al punto da essere quasi insostenibili per la nostalgia che alimentano nell'animo. Come avrete sicuramente capito, non è solo il grande Igles Corelli a suscitarmi questi pensieri e questi sentimenti. Or non è più quel tempo e quell'età. I raduni al Mezzano, che dalla piazza del municipio di Ostellato si trasferirono poi proprio in prossimità della Tamerice, le grandi gare di quei tempi, Coppe, Campionati, insigni personaggi, e altrettanto indimenticabili cani. E un'atmosfera radicalmente mutata, in peggio, è ovvio. Molto in peggio. Quando Igles si trasferì a Ostellato era, mi pare, il '96. Io avevo iniziato a frequentare il Mezzano da ventidue anni. Ma l'arrivo di Corelli incide, e rende ancor più dolce il ricordo di certi eventi meravigliosi, grandi Derby, grandi gare. Poi la più splendida, la più grandiosa, la più fantastica ineguagliata e mai eguagliabile palestra europea della Grande Cerca è svanita come la nebbia che non di rado aspettavamo si diradasse al mattino, in attesa di iniziare gli allenamenti o le gare. Ricordo con ineffabile piacere le lezioni di cucina che Igles mi impartiva, ma con il suo elegante impareggiabile savoir faire, specie quelle sui beccaccini e su gli altri animali di palude.

Ora Igles è sempre più giovane, sempre più in forma, e destinato a continuare a dominare la scena per decenni. Il Mezzano, invece, non c'è più. Chissà la Tamerice che fine avrà fatto. Se uno si affaccia alla finestra della locanda nelle notti di primavera gli accadrà come si narra a proposito di Eclipse, il padre del purosangue. Udrà nei notturni silenzi il galoppo di Ribot della Noce pulsare i campi di torba.

Ah, perché, perché sul ciglio una lagrima spuntò.



La Grande Cerca



La Grande Cerca (GC) è stata probabilmente concepita, al suo nascere, come modello stilizzato, come sintesi ideale e semplificata al massimo, della caccia all'inglese, quale ci viene descritta, per esempio, da William Arkwright nella sua opera dedicata al pointer. Terreni amplissimi, non troppo ondulati, dove si cacciano uccelli (pernici o grouse in brigata) con una coppia di cani da ferma che esplorano estesamente i campi in un lavoro di concerto, di conserva, si direbbe in gergo marinaresco, noto come cerca incrociata. L'ideale astratto della cerca incrociata è stato poi applicato al regolamento della GC, con il teorico, ma lodevole, intento di assicurarsi il più completo vaglio della campagna. Il tracciato che i cani dovrebbero disegnare obbedendo a questo metodo è a tutti noto: partenza ortogonale, ciascuno dal proprio lato, rispetto alla direzione del vento, poi virata ampia di giusta profondità, per intraprendere un tragitto in diagonale rivolto verso il lato opposto, con incrocio a centro campo, alla stessa altezza del compagno di coppia.

In Italia, e altrove in Europa, si può dire che si corrano prove a GC da più di un secolo. Tuttavia l'inizio vero e proprio di questa disciplina, come è conosciuta ed attuata oggi, può esser fatto ragionevolmente risalire a gli anni che di poco precedettero, nel secolo scorso, il secondo periodo bellico. In Italia lo sviluppo rigoglioso e rapido è avvenuto soprattutto nell'epoca immediatamente successiva al conflitto, tanto che proprio da noi la prima edizione di Coppa Europa, a Bolgheri, nel 1950, ha ufficialmente sancito una certa unità d'intenti e di vedute tra varie nazioni europee, inizialmente Italia e Francia, e subito dopo Svizzera e Belgio, a le quali poi, col passare degli anni, se ne sono a poco a poco associate molte altre.

È facilmente intuibile che l'enorme esperienza accumulata durante tutto questo tempo, la serietà e continuità ed efficienza dell'organizzazione, la cultura cinologica e la forte preparazione tecnica, insomma il patrimonio dottrinale, e pratico, che si tramanda di generazione in generazione, hanno fatto sì che tutto ciò in cui consiste la GC, e che essa implica e presuppone e comporta, abbia raggiunto dei livelli di eccezionale perfezione, il che costituisce la garanzia di base, fondamentale credenziale per l'attendibilità del sistema.


Finalità per il conseguimento delle quali è stata istituita la GC

Lo scopo dichiarato si può dire sia sostanzialmente uno, che potrebbe forse definirsi come la coltivazione, il mantenimento, la salvaguardia e la tutela delle caratteristiche peculiari delle razze dei cani da ferma inglesi. Concetto che ha trovato in Giulio Colombo la più chiara espressione e il più determinato sostegno. Colombo era convinto, secondo me a ragione, che, senza la continua verifica, attuata mediante il terribile banco di prova della GC, le razze setter e pointer sarebbero inevitabilmente andate incontro a una progressiva involuzione, a un fatale decadimento, che le avrebbe portate a snaturarsi e a perdere quelle eccelse qualità che ne hanno sempre fatto un meraviglioso patrimonio, di inestimabile valore biologico, culturale e zootecnico. Se questa era sostanzialmente l'impostazione di Colombo, è quasi scontato aggiungere che, nell'ambito della Cinofilia Italiana, molte altre eminenti personalità di grande spessore tecnico l'hanno condivisa e hanno fornito un decisivo contributo teorico e pratico. Quindi, da questo punto di vista, la prima esigenza che ha oggettivamente mosso i fautori della GC si può così definire: l'obbligo morale di difendere un patrimonio animale, umano, biologico, culturale, prodotto e affinato attraverso secoli di studio, dedizione ed esperienza. In questa ottica la GC assume la funzione di pietra di paragone, di unità di misura ufficiale a cui si possa far sempre e in ogni caso riferimento per valutare lo stato delle razze. La GC come cartina di tornasole, come pHmetro, come polso della situazione, come stato dell'arte. La GC come ago magnetico dell'allevamento di setter e pointer, la GC come diapason.

Oltre a questo ci sono, come è ovvio, altre proprietà ed altre funzioni altrettanto importanti.


Lo spirito estetico e pedagogico della GC

Vi sono dei risvolti morali nella concezione classica. Il sogno archeologico, antiquario, di conservazione di una ritualità e di un'arte, sottratto al tetro declinar dei tempi. Il nostro gusto puristico dello stile, da tramandare ai posteri. Colombo sosteneva, e probabilmente a ragione, e ad onta del conformismo dei mediocri (questo sì che sopravviverà ad ogni epoca, intramontabile) che lo stile nasce dall'agonismo. È la strenua lotta a richieder di adunare tutte le risorse, anche quelle più nobili e preziose, tra cui primo è lo stile, per aver ragione dell'avversario. E la nostra pedagogia è la pia illusione (illusione, sì, forse, ma pia): Oh miglior gloria, ai figlioletti intenti / narrar le forti prove e le sudate / cacce ed i perigliosi avvolgimenti.

La testimonianza è culto del bello, e senza questo nulla può la nuda tecnica. Noi vogliamo vincere di mille secoli il silenzio.



La GC come banco di prova

L'arcinoto postulato a fondamento del teorema è il seguente: se noi stabiliamo delle regole, cogenti il trialer a compiere nella febbrile concitazione della strenua lotta, a velocità massima, le cose che il bravo cane da caccia riesce a fare scodinzolando e sommando tre passi in un mattone, avremo la certezza di possedere la matrice, lo stampo, il conio. La pietra filosofale sarà nostra.

L'idea è valida. Non può non esserlo. Prima di tutto perché corroborata dall'esperienza. Ognuno di noi sa, per averlo più e più volte constatato de visu, che le buone virtù si esercitano con relativa facilità senza pressione. Ma quando invece la pressione incombe, quando si deve riuscire a fornir l'opra in una frazione di secondo, e non anzi il chiarir del giorno dopo, e per giunta col fiato del rivale sul collo, la situazione cambia diametralmente: quello che era alla portata di molti, o di non pochissimi, diventa privilegio di un solo.

Il trialer, sottoposto in una manciata di minuti all'impegno fisico e nervoso che un cane normale produce nell'arco di un mese, ci elargisce la prova certa di esser fatto di rarissima pasta eroica. Il migliore acciaio temprato è la materia di cui son fatti suoi visceri, muscoli, nervi. Non solo per riferimenti siderurgici abbiamo usato questo termine: "temprato”.


La GC come laboratorio sperimentale

Il passo dal precedente assunto è breve. Anche se la questione si complica, e va analizzata accuratamente. Bisogna riandare a "L'origine delle specie”, alla distinzione che l'Autore vi fa tra selezione naturale e selezione operata dall'uomo. Insomma, al concetto fondamentale di "selezione”, ovvero di "scelta del più adatto”. L'esperimento, in questo caso, ha bisogno che sia approntato un laboratorio, che possegga i necessari requisiti. Occorre stabilire quali siano i materiali, e definire esattamente i metodi. E questo è proprio quello che ogni volta si fa quando si organizza una prova a GC: terreni starne e tutto il resto. Non essendo possibile ottenere risultati quantitativi, numerici, è necessario avvalersi dei giudici. Questa è una condizione frequente in ogni procedura sperimentale, e non inficia in alcun modo il valore e la significatività dell'esperimento.

Una cosa è essenziale aver ben chiara: che cosa ci possiamo aspettare, e che cosa non possiamo pretendere. In altri termini, quali sono le caratteristiche che un soggetto, superando il test, dimostrerà di possedere in grado più o meno elevato, ma comunque sempre al di sopra del livello richiestogli perché sia considerato "adatto”. E qui è necessario fare attenzione.


La nota del concorso

La nota del concorso è il grado di intensità dell'azione, il ritmo e la continuità dell'azione necessari ad esplicare una cerca di amplissimo raggio in tempi estremamente ridotti: Spazio fratto Tempo, cioè a dire Velocità.

Poiché il concetto fisico di velocità non coincide con quello del gergo tecnico-sportivo, dobbiamo assolutamente essere chiari su questo punto, ad evitare pericolosi fraintendimenti. In fisica la velocità è lo spostamento nell'unità di tempo. Nel gergo tecnico-sportivo è l'attitudine ad essere molto veloci in un breve tratto. Per esempio, in atletica sui 100 e i 200 metri, e, in parte, sui 400. Come in atletica, anche nel ciclismo è la capacità di toccare quasi istantaneamente altissime punte di velocità negli ultimi metri di una corsa (lo sprint). E via discorrendo. Sempre nell'atletica, per contro, le corse su distanze di 800 metri ed oltre sono considerate di fondo (nelle sue tre distinzioni di mezzo fondo, fondo e gran fondo). E' ormai da gran tempo accettato, e accertato, in fisiologia dello sport, sia per quanto riguarda l'allenamento, sia anche riguardo alla gara, che la dote più desiderabile, e di maggior valore, di un atleta sia quella di esprimere e mantenere una velocità elevata su la distanza, conservando però la capacità di una brusca accelerazione (Spazio fratto Tempo al quadrato) nell'ultimo tratto della corsa, in prossimità del traguardo. La qual cosa è la più preziosa caratteristica che si evidenzia al più alto grado nella "killing race” (i 400 metri), ma poi anche nelle gare di mezzofondo (800 metri e oltre). Nel Purosangue Inglese, massima espressione di animale da sport, la qualità di riferimento è il saper tenere un'alta velocità su distanze intorno ai 2000 metri, o poco superiori, conservando la freschezza e la capacità di scatto, di allungo, di bruciante accelerazione, nell' ultimo "furlong” (ultimi 200 metri). Questo contraddistingue il campione, nel suo moderno concetto. Siffatte considerazioni, o anche altre analoghe, ci introducono a inquadrare la performance atletica del trialer nella sua corretta dimensione.


Il trialer atleta

Se, con il facile ausilio che le moderne tecnologie mettono a disposizione di tutti, andiamo a dare un' occhiata ai principali campi dove si corrono al giorno d'oggi le più importanti prove a GC, e facciamo anche qualche misurazione, possiamo agevolmente constatare che il terreno assai raramente è largo meno di un chilometro. Possiamo fare alcuni esempi, per corroborare le nostre asserzioni con dati di fatto (Google Maps©). Vrtište, terreno del barrage: 1940 metri. Lalinac: 1750 metri. Lalinske Pojate: 1180 metri. Doljevac (T): 1120 metri. Zitorada (ferrovia): 1000 metri. Eccetera. È da tener presente che queste misure, larghezza massima del campo con direzione del vento che coincide con l'asse mediano, sono suscettibili di allungamento, anche notevolissimo, qualora la direzione del vento sia obliqua. Posso tranquillamente affermare, per diretta esperienza ormai più che decennale su i terreni sopra citati, che non sono affatto rari i casi di cani che estendono la cerca da una estremità all'altra. Basiamoci tuttavia su una estensione meno estrema, e poniamo che il cane parta sul lato e viri a 400 metri. È constatazione usuale che egli, assai spesso, ripasserà al centro, dinanzi alla giuria, all'incirca allo scadere del primo minuto. Quindi circa 800 metri in un minuto, pari a circa 50 km orari. Giulio Colombo si chiedeva: che cos'è che spinge il trialer a battere a 50 km all'ora la piana di Bolgheri? Come si vede, la sua stima era certo prossima al vero. Attualmente, con le risorse tecnologiche di cui disponiamo, sarebbe possibilissimo acquisire dati certi, per esempio anche solo mediante l'uso di collari GPS. Ma in questa sede per noi sono ampiamente sufficienti le stime approssimative che abbiamo fatto.

Orbene, non è per nulla infrequente che un cane protragga per molti minuti un impegno continuo e costante del tipo suaccennato. Se si ipotizza, ragionevolmente, una durata media di 5 minuti, questo significa che il cane potrà avere all'incirca percorso fin quasi 4 kilometri. Un'enormità! È importantissimo tenere presente che lo avrà fatto, quasi sempre, su terreni difficilissimi e durissimi.

Federico Tesio si dilunga estesamente a dimostrare che il purosangue è l'atleta più possente e veloce che esista. Prendiamo i tempi dei vincitori del Derby di Epsom, per esempio dal 1950 al 1970, da Galcador a Nijinsky: si va da un massimo di 2'41''98 di Santa Claus, nel 1964, a un minimo di 2'34''68 di Nijinsky, nel 1970. La velocità del figlio di Northern Dancer nel coprire i 2400 metri è stata pertanto di quasi 56 km/ora (quella di Santa Claus circa 53 km/h). D' accordo: con 58 kg di peso da portare, ma su 2,4 km e sulla magnifica erbolina della pista da corsa di Epsom.

Ma consideriamo poi che un cavallo classico sostiene, nell'arco di un anno, al massimo due, tre impegni del genere. Un cane da GC uno al giorno per diversi giorni consecutivi, durante una tournée !

Come si vede, abbiamo fornito dati di sufficiente eloquenza per mostrare l'entità, la grandiosità di ciò che è capace di fare un trialer.

Un tempo il regolamento della GC, in Italia, contemplava, a mio parere molto ma molto saggiamente, un primo turno di cinque minuti per la verifica della Nota, e un secondo turno per l'incontro. Ma la norma non mi pare sia mai stata attuata, e anzi subito abbandonata. Il compianto Alberto Chelini sosteneva che un turno di cinque minuti in grande cerca sia ampiamente sufficiente, e andare oltre inutile e dannoso. Il regolamento in vigore attualmente prescrive quindici minuti, uno sproposito, e un non-senso fisiologico e tecnico. In fisiopatologia dello sport è ormai pressoché da tutti accettato che: nell'uomo l'allenamento deve essere in prevalenza accentrato su scatti con sforzo breve e massimale; nell'animale la migliore qualità, feno- e geno-tipica (nel senso: migliore allenamento per evidenziare il reale valore individuale del soggetto, e migliori risultati in razza da parte dei soggetti con tali caratteristiche), si ottiene nello stesso modo, capacità di produrre, e sopportare, brevi ma intensissimi cambi di velocità. Non per nulla nel purosangue il ciclo annuale di selezione classica ha portato, nel corso dei secoli, a una progressiva riduzione della distanza, con abbandono delle Coppe, e anche dei tremila metri, e anche, in vari paesi, tra cui l'Italia, dei duemilaquattrocento del Derby.

Mi è capitato, anche in tempi non remoti, di sentir dire (da addetti ai lavori !!!) che il trialer sarebbe un velocista. Come abbiamo visto il trialer è un superfondista, un atleta da gran fondo.


L'epos eroico del trialer

Abbiamo accennato alla domanda retorica di Colombo: che cosa spinge. In effetti, il motore da solo non basta. Nessun grande atleta è tale se oltre alla eccezionale costituzione fisica non possiede anche le stigmate psichiche. Ovvero quelle doti che si sogliono comprendere nel termine Temperamento, o Mentalità, o Animus. Per essere un gran pugile non basta la corporatura, occorre la "cattiveria”. Per scalare lo Stelvio e il Mortirolo ci vuole la tenacia, la volontà, la capacità di soffrire, di sopportare il dolore, fisico e morale.

Non troppo tempo fa, un pointer affrontava un turno su gli arati in una giornata di tregenda, temperatura sotto zero, gelido vento di violentissima tempesta, tormenta di neve che aveva trasformato l'aere in un algido candido caos turbinoso. Quel pointer, col passare dei minuti. aumentava sempre più l'andatura, un galoppo travolgente, nel suo viso pareva trasfusa un'atavica rabbia, la sua figura assumeva tratti decisamente surreali, ora un po' più nitida, ora quasi confusa nel bianco, delineata solo dall'alone indistinto che il vento crudele spargeva a lui dintorno. Un riverbero, una nuvola in cui gli dei omerici racchiudevano gli eroi guerrieri per celarli al fato arcano.

Colombo, nel definire il trialer, si è probabilmente ispirato alla bronzea statua del Puro folle, di Adolfo Wildt, conservata a Milano e raffigurante Parsifal. Il trialer come eterno Parsifal, eroe senza macchia e senza paura.


Il corpus unitario della GC, ma il suo duplice destino

La GC, modello stilizzato ed astratto, essenziale semplificazione, costituisce, come abbiamo visto, la ricostruzione in laboratorio dell' ambiente naturale darwiniano. Ed è un modello perfetto: non vi sono mai state, non vi sono e non vi saranno incrinature nel modo di intendere la sua essenza, e di tradurla in operazioni. Meccanismo di selezione che ha sfidato enormi cambiamenti nel mondo circostante, peraltro continuando a dimostrare, con i fatti, la sua invidiabile efficacia, la sua perfetta coerenza.

L'individuo adatto, che supera la prova ed è quindi idoneo alla prosecuzione della stirpe, si può ben dire che racchiuda in sé almeno quattro virtù sempre ritenute fondamentali, e tuttora pienamente rispettate:

-il fisico d'acciaio, l'elettissimo corpo d'atleta

-l'animo che aspira a gli alti ideali

-la capacità di fermare le starne procedendo a velocità esasperata

-la disposizione innata ad apprendere il severissimo addestramento del trialer

La GC può vedersi del tutto svincolata da ogni finalismo che non le sia interno. La GC in sé e per sé, fine a se stessa, con l'unico compito dichiarato di essere la riserva aurea, la banca del seme: istituto per la conservazione del modello di pointer e setter di qualità superiore, la GC è un patrimonio e trova in se stessa la sua giustificazione.

Quando ormai le cariche della cavalleria fanno parte della storia del passato, glorioso ma passato, quando l'umanità si sposta con autovetture, treni ad alta velocità, aeroplani ed elicotteri, quando anche le carrozze dei vetturini, romantici veicoli di turisti e d'innamorati, rischiano di esser messe al bando, quando gli arabili campi sono solcati da potentissime macchine, il cavallo, nobilissima creatura, vede la sua unica ragione di sopravvivenza nello sport.

Non è affatto da escludere che quel che resta della caccia in Italia (ben poco, purtroppo) sia presto abolito con un tratto di spugna, ed è soprattutto prevedibile che una volta accaduto questo deprecabile fatto la sorte del cane da caccia nel "bel paese” sia segnata. Ma resterà sempre, in altre parti d'Europa e del mondo, l'orticello di Bruna, dove la razza dei nostri cani assurgerà ad un ruolo sempre più alto: la conservazione dell'onore e del blasone di famiglia.

Questa è la prima branca. La seconda, invece, è quella di tipo secondario, utilitaristico. Nessuno, credo, può aver mai realisticamente pensato che un cane che nasce da una stirpe indomita di trialer, qualora non riesca ad emergere in GC, sarà comunque un eccellente cane da caccia. Visione ingenua e velleitaria e infondata quant' altre mai.

Se vogliamo, e dobbiamo, essere coerenti, devesi innanzitutto riconoscere che la selezione del buon cane da caccia ha poco a che vedere con quella del trialer. Il caparbio, ostinato, meticoloso lavoro del cane da caccia non ha alcun punto di contatto con l'astratto schema della cerca incrociata, la sua selvaggina è molto più difficile da cacciare, il suo ambiente d'elezione è in molti casi il bosco, il roveto, il canneto, il padule, le distese di folti arbusti, le cime rocciose, dove si richiede sagacia, prudenza, scaltrezza, magistero artigianale, passione, intelligenza venatoria, astuzia, mestiere, riporto, recupero, fremente dimenìo di coda che serve a mostrare la vicinanza del selvatico, naso a scrivere per terra, a dipanare l'intricato errore dell' usta, volontà di svolgere un lavoro di coppia, sì, ma con il cacciatore, in una meravigliosa intesa, collegamento, cooperazione tra uomo e cane! Tutte cose che esulano anni luce dal limitato e ripetitivo repertorio del trialer. Insomma, come la GC è il potente, ben congegnato laboratorio di selezione del trialer, depositario delle più aristocratiche prerogative, del tutto coerentemente con questo si deve riconoscere che l'unico modo di selezionare il cane da caccia è la caccia.

Tuttavia, a ben guardare, alcune delle preclare qualità del trialer, che meravigliosamente si selezionano per mezzo della GC, non possono che essere di grande beneficio se iniettate nella fattrice da caccia. Chi può negare che il fisico temprato del grande atleta, e la potenza olfattiva congiunta con la prontezza di riflessi siano un aiuto preziosissimo per il cane da caccia? Ci sono stati, e ci sono, vecchi e saggi allevatori che si basano sull'abilità venatoria, nello scegliere i riproduttori, ma ogni due, massimo tre generazioni, provvedono ad accoppiare con il gran trialer, per impedire l'affievolimento dei mezzi fisici, che se è incompatibile con la GC è assai dannoso anche per la caccia, che esige molta forza fisica.

Quindi la GC da un lato basta a se stessa, alla sua nobilissima missione di salvaguardia del patrimonio delle razze, e dall'altro fa da serbatoio per il rinsanguamento di altre popolazioni canine, adibite a scopi pratici. Né più né meno di ciò che avviene nei cavalli, dove il purosangue inglese, oltre all' imperativo categorico di tramandare se stesso, rinsangua anche le razze da lavoro, da sella, da concorso ecc. Perché, tornando alla fine e come sempre a Federico Tesio, nessuno può competere con le celebrità, in qualsiasi campo.










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